di Antonio Di Lorenzo
“Sarà per me sufficiente che la mia storia sia giudicata utile
da quanti vorranno indagare la chiara e sicura realtà di ciò
che in passato è avvenuto e che un giorno potrà pure avvenire,
secondo l’umana vicenda, in maniera uguale o molto simile”
Tucidide
Il coronavirus nel racconto della peste di Atene di Tucidide
IV secolo avanti Cristo.
Il coronavirus è entrato nella nostra vita senza bussare, mascherandosi prima come “ceppo”, poi come “epidemia” ed in ultimo come “pandemia”.
Senza piedi, ma con aspetto coronato e sovrano, si è servito delle nostre gambe per diffondersi, dei nostri comportamenti per affermarsi, dei nostri principi per colpirci.
Educati a vivere insieme per affetti, per lavoro, per necessità o per svago, abbiamo dovuto rinunciare alle nostre abitudini, a cominciare da una semplice stretta di mano. Con le mascherine poi abbiamo dovuto dimensionare parte del nostro aspetto, accettabile solo ad un metro di distanza.
Tentare un percorso razionale sul tema è arduo e non di competenza comune, tuttavia possiamo definire il virus un elemento “metatempirico”, cioè al di sopra delle conoscenze della esperienza sensibile, in considerazione che, alla data odierna, nessuna controreazione è stata opposta alla sua potente azione.
Ha tolto il respiro ai nostri cari prima di soffocarli definitivamente, nella speranza che il buon Dio potesse intervenire con la dovuta grazia e misericordia e restituirli alla vita.
Papa Francesco, a domanda, ha risposto: “Come pretendiamo di essere sani in un mondo malato?”.
Volgendo lo sguardo al passato, alla storia, ci accorgiamo che varie epidemie hanno sconvolto la vita dei popoli. Anche il mondo greco pagò un tributo molto grave a seguito della peste di Atene, durante la guerra del Peloponneso, così come riferisce Tucidide nel suo famoso libro di Storia.
Era l’anno 430 a. C., l’inizio della guerra tra Sparta e Atene e precisamente il secondo anno delle ostilità. Sparta forte per strategia terrestre e Atene per controllo sul mare, per circa 20 KM di costa, si fronteggiavano con esiti incerti. L’accesso al mare, attraverso il Pireo, costituiva per Atene la migliore garanzia per i traffici commerciali e gli approvvigionamenti di ogni genere, inclusi quelli di natura militare. Tucidide fu in prima linea nella guerra, sia come stratega, sia come comandante, e utilizzava la flotta greca per ricevere via mare le provviste necessarie e per portare insidie lungo le coste del mar Egeo alle città alleate di Sparta. Protetta anche da Grandi Mura, che dal porto custodivano le vie di accesso verso i Propilei ed il Partenone, Atene confidava nel buon esito della guerra, dopo il primo anno, quando dovette prendere atto di un nuovo nemico: la peste. Fu proprio attraverso il Pireo che il percorso dei contagi raggiunse il Partenone centro di civiltà, di cultura e di democrazia.
Come riportato da Tucidide, i sintomi del male erano pressappoco gli stessi del coronavirus di oggi: starnuti, raucedine, tosse violenta, dolori allo stomaco e fuoco su tutto il corpo che comportava la necessità continua di bere e di refrigerarsi. Coloro che guarivano perdevano la memoria e l’amnesia comportava il mancato riconoscimento persino dei membri della propria famiglia.
La perdita di vite umana fu ingente e le sofferenze di coloro che si accorgevano del contagio generava una profonda “demoralizzazione”. Lo stesso Pericle morì di peste.
Dalle parole di Tucidide ne “La guerra del Peloponneso”.
“Iniziò allor in città, per la prima volta in seguito alla malattia una maggiore sfrenatezza di fronte alla legge anche in altre cose e con più ardore, molti osavano ciò che prima stavano attenti a fare a loro piacimento”.
Nella patria di Socrate, Platone, Aristotele e Fidia, nel cuore della democrazia “ognuno perde ogni freno, ogni buona creanza, ogni forma di rispetto e di civiltà e soccombe ai principi a cui si ispira la democrazia stessa”.
“Fece la sua prima apparizione, a quanto si racconta, in Etiopia, oltre l’Egitto; poi dilagò anche nell’Egitto, in Libia, e nella maggior parte del regno di Persia. In Atene piombò all’improvviso e i primi a subirne il contagio furono gli abitanti del Pireo, sicché ne venne poi la diceria che i Peloponnesiaci avessero inquinato le cisterne di acqua piovana, dato che in quel luogo non vi erano ancora sorgenti vive”[1].
Nel Peloponneso, territorio degli Spartani, il morbo non si diffuse in maniera rilevante e gli stessi guerrieri spartani, preso atto delle conseguenze del contagio, non approfittarono della debolezza degli ateniesi, per timore di essere loro stessi contagiati.
“Né i medici erano in grado di combatterla, per imperizia, dato che si trovavano a curarla per la prima volta; anzi essi stessi in modo particolare morivano, in quanto più di tutti s’accostavano ai malati; ogni altro umano accorgimento era inefficace. E quante suppliche nei templi, quanti ricorsi agli oracoli e ai divini aiuti! Tutto fu inutile.
Alla fine, da tutto ciò si desistette, sopraffatti dalla violenza del male[2].
L’epidemia tornò altre due volte: nel 429 e nell’inverno del 427 a.C., finché non trovò forse la soluzione ne “l’immunità di gregge.”
Anche gli Dei di allora furono chiamati, anche se con modalità diverse[3], alla soluzione del problema, non considerando che già Omero, a proposito delle sciagure umane, aveva sentenziato, attraverso la bocca di Giove.
“Poi disse Giove, incolperà l’uom dunque sempre gli Dei
Quando a se stesso i mali fabbrica
E dei suoi mali a noi dà carco
E la stoltezza sua chiama destino”[4].
di Antonio Di Lorenzo
foto di copertina: La peste di Azoth, di Nicolas Poussin, 1631, Louvre
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