di Lidia Di Lorenzo

La preparazione del terreno iniziava a settembre. A forza di braccia gli uomini dissodavano il terreno con la vanga, affrontando il campo nel senso della lunghezza. Procedevano parallelamente, non superandosi, ma stimolandosi per portare a termine il lavoro nel più breve tempo possibile. Ogni tanto uno sputo nel palmo della mano per attenuarne l’attrito con il legno, uno stiramento della schiena e uno sguardo lungo per valutare il lavoro rimanente. Alle dieci la padrona portava nel campo una cesta di vimini con la prima colazione, fatta di pane, vino, patate fritte con peperoni all’aceto. Un pezzo di formaggio stagionato, contenente a volte qualche irrequieto ospite, era una leccornia attesa, come un pezzo di salsiccia affumicata. Il pasto veniva consumato sul posto, mentre per il pranzo di mezzogiorno i lavoratori raggiungevano la casa del massaro, dove, intorno ad una unica ampia zuppiera colma di pasta e fagioli, o di minestra simile, si contendevano educatamente il cibo, seduti a debita distanza dal bordo del tavolo, al fine di dissimulare l’avidità.

Necessitando un più profondo rivolgimento del terreno, o per appezzamenti più ampi, si procedeva con l’aratro tirato dai buoi e allora un solo bracciante eseguiva il lavoro di molti uomini insieme, con beata tranquillità, perché il tempo allora scorreva lentamente, le stagioni erano più lunghe, l’anno interminabile, gli orologi al polso inesistenti. Il sole, il cielo, le stelle guidavano il sonno e la veglia, scandivano le giornate. La pioggia, il gelo, la neve, il bel tempo regolavano l’umore, perché da essi dipendevano il buon esito della incessante fatica fisica.

Dissodato il terreno indurito dal clima torrido dell’estate, si provvedeva a spianarlo con il mangano, e si attendeva il momento propizio per la semina, il favore degli astri. Poi, ripetendo gesti atavici, gli esperti seminatori attingevano pugni di semi da un contenitore sostenuto al livello del petto e li spargevano sul campo, cadenzando i passi, al fine di realizzare una distribuzione uniforme. Poi di nuovo il mangano passava sul campo e sotterrava i chicchi. Non restava che attendere la nascita delle piantine, che avveniva ai primi tepori che precedevano la primavera, quando dalla terra si risvegliavano anche i semi di tante erbe selvatiche infestanti, più forti e vigorosi di quelli selezionati. Allora si doveva procede a sfellicare il grano. Lo facevano le donne, per lo più fanciulle, che, intonando tutte insieme canti popolari, con delle piccole zappe, estirpavano la mala pianta e davano spazio ai teneri fili di grano. Il giorno dell’Ascensione al cielo di nostro Signore, che cadeva quaranta giorni dopo la Pasqua, si soleva mangiare il riso col latte, per augurarsi che le spighe si ingrossassero, riempendosi del bianco, benefico fiore. A fine giugno il grano da verde diveniva biondo e, le messi percorse, nonostante il lavoro di pulizia, dal rosso acceso dei papaveri, riproducevano paesaggi di Monet e colori di Van Gogh, mentre la traccia lasciata dal passaggio umano e un improvvisato giaciglio riconducevano ad un amore consumato furtivamente nei campi.

Tornavano gli uomini che recidevano le spighe mature con le falci, ne facevano dei fasci ordinati, pronti per essere portati con i carri sull’aia. Qui arrivava la trebbia, con grande fragore, preceduta e seguita da numerose persone sfinite per il caldo, ma festanti. Simile al carrozzone di un grosso circo, si muoveva da una casa all’altra, portando con sé non poche emozioni. Sull’aia si metteva in moto la complicata macchina, costituita da una parte che ingoiava le fascine, da un’altra che vomitava il grano e una larga cinghia che, messa in azione a forza di braccia da muscolosi giovani, ruotando rumorosamente, univa le due parti. Si calcolava la quantità di grano raccolto dal numero dei tumuli riempiti, e gioivano coloro che avevano centrato la previsione.

Portare il grano al mulino era un lavoro di grande rispetto. L’ufficio consentiva anche la richiesta dell’uso della bicicletta ad un fortunato possessore. Così il sacco di grano messo a cavalcioni sulla cannòla della bicicletta da uomo si raddoppiava al ritorno in sacco con la crusca e sacco con la candida polvere, che le donne, con sapienti arti antiche, sapevano trasformare in cibo quotidiano e in cibo per solennizzare le feste. Si giovavano di semplici attrezzi, tavolo di legno rotondo, rotella, pezzi di canna, lunghi cucchiai, ma il principe era il matterello, unica arma che esse potevano bonariamente brandire contro mariti traditori che rincasavano tardi.

autore: Lidia Di Lorenzo


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