di Lidia Di Lorenzo

   Individuato il luogo dove poter costruire la propria casa, in genere ai bordi estremi di un terreno di proprietà, la giovane coppia chiamava il maestro muratore, che poneva in essere il progetto di sempre, ben chiaro nella sua mente, per anni realizzato senza disegno alcuno e senza dover richiedere alcuna autorizzazione. Era costituito da due stanze al piano terra: una adibita a cucina, con il focolaio, e un’altra attigua, la stalla per le mucche. Al piano superiore due camere: una da letto per i genitori e una per i figli. Queste si aprivano all’esterno su una loggia che poggiava su due archi e terminava con una scala esterna all’abitazione. Per evitare di raggiungere il piano superiore al freddo o sotto la pioggia, sovente nel pavimento del piano superiore si apriva una botola, la catarattola, che si raggiungeva dalla cucina con una scala di legno. La casa mancava di stanza da bagno e la latrina era o la stalla o un piccolo vano senza tetto, circondato da uno steccato e chiuso da una porta fatta di assi di legno, situato a debita distanza dall’abitazione. Il mobilio era essenziale: un tavolo per mangiare, una credenza per conservare i cibi, alcune sedie di paglia e poi tanti sacchi di iuta, che servivano spesso anche da sedili, contenenti provviste annuali di cibo: farina, grano da macinare, legumi, patate, noci, intorno ai quali e talvolta nei quali si divertivano i topi, allora abitanti abituali di ogni casa. Al piano di sopra due letti matrimoniali, uno per la coppia con figli piccoli e l’altro per tutti gli altri figli, maschi e femmine che fossero, per quelli che sopravvivevano a malattie affidate a cure empiriche, alla poca igiene, ai pregiudizi e alle stregonerie. Perché in effetti non tutti erano destinati a vivere e la mortalità infantile, mancando presidi sanitari, rimase alta per tutti gli anni cinquanta. Spesso dal campanile del paese giungeva un piccolo suono di campana, la romanella, che annunciava che ancora un bimbo era salito al cielo. Il riscaldamento era costituito dal fuoco del camino e dal braciere, sul quale si poggiava un arnese di lamine di legno flessibile, che serviva per asciugare i panni. Solo nelle famiglie benestanti era in uso lo scaldaletto di rame, nel quale si ponevano i carboni ardenti del caminetto. Questo poi si passava sotto le lenzuola per attenuarne il freddo umido.

All’esterno dell’abitazione si stendeva l’aia, da tutti chiamata l’aria, in quanto la pronuncia di tre vocali insieme veniva aiutata nel linguaggio comune dall’interposizione di una consonante. Questa era pavimentata con una colata di cemento grezzo, in genere senza delimitazione, e solo nelle case più ricche era circondata per tre lati da un muretto. L’altro lato aperto serviva per permettere il passaggio del carro che scaricava i prodotti dei campi.

L’aia era centro del lavoro e della vita sociale. Vi giocavano i fanciulli del vicinato, vi si riunivano le donne per chiacchierare, vi circolavano le galline che lì ricevevano il cibo, costituito da chicchi di grano turco. Sull’aia avveniva ogni fase della conservazione delle derrate. Il grano veniva trebbiato, steso al sole per alcuni giorni, dopo averlo solcato quotidianamente con i piedi scalzi. Poi con un ampio crivo, veniva filtrato e arieggiato, quindi disposto nei sacchi per il trasporto al mulino. La lavorazione del mais, allora granone, era più complessa in quanto aveva inizio con lo spoglio delle pannocchie ad una ad una. Il lavoro si eseguiva con un piccolo arnese di legno fornito di una punta e abbisognava di più persone insieme. Così sull’aia si riunivano donne e uomini, che fino a tarda notte denudavano le spighe, al fresco e in piacevole conversazione, essendo un carico di lavoro, rispetto agli altri, alquanto leggero. Poi giungeva la macchina che separava i chicchi dai tufoli. I primi venivano deposti nei sacchi per nutrire gli animali, gli altri per alimentare il camino d’inverno. Tutte le riserve alimentari passavano per l’aia, i fagioli, i ceci, le fave.

Accanto ad ogni casa c’erano le méte di paglia, caratteristiche costruzioni morbidamente coniche, fatte con gli steli secchi e le spighe private del seme. Le costruivano gli uomini, con grande maestria, quado arrivava la macchina trebbiatrice. La paglia serviva come lettiera per le bestie e per attivare il fuoco d’inverno, perché allora tutto era riciclato e nessun rifiuto prodotto, persino la cenere del focolare serviva per concimare i campi, come il letame. Intorno alle méte di paglia si rincorrevano i ragazzi per i giochi di una volta e non di rado le cavità scavate dentro di esse per l’utilizzo quotidiano servivano come nascondiglio per corporali bisogni. Esse, essendo di natura estremamente infiammabile, costituivano a volte un pericolo, se poste troppo vicine all’abitazione, in quanto una distrazione dello stesso proprietario o la vendetta di un compaesano offeso, prima forma rustica di intimidazione, poteva scatenare un incendio irrefrenabile. Allora era tutto un accorrere del vicinato con secchi di acqua al fine di salvare la casa, le bestie e le méte vicine.

 L’albero di fichi non mancava accanto a nessuna casa, in quanto non abbisognava di cura alcuna e offriva gratis frutti dolci e deliziosi, da conservare disseccati al sole anche per l’inverno, inoltre le larghe foglie ruvide servivano per detergere i piatti dal grasso della salsa, fatta a base di passato di pomodori e lardo pestato.

L’acqua si attingeva al pozzo, se c’era, o alla fontana, ed era un impegno quotidiano. L’illuminazione era fornita dalla luce a petrolio, che impregnava la casa in maniera perenne di tanfo di cisto. Questo rimaneva sulle mani delle donne anche dopo un accurato lavaggio domenicale. La corrente elettrica arrivò in maniera generalizzata alla fine degli anni cinquanta.

Le risorse economiche erano allora molto limitate, la moneta non circolava. Il pagamento della fondiaria ossessionava anche i pochi proprietari terrieri, sui quali, in genere, appoggiava la propria possibilità di sopravvivenza molta manodopera che chiedeva di essere presa alla giornata nei meleti, nei vigneti, nella raccolta dei vari prodotti dei campi e persino nella raccolta della gramigna, utile a foraggiare le poche bestie possedute. Si usava pensare che l’agiatezza di una famiglia si misurasse dall’altezza del cumulo di letame accanto all’abitazione.

L’analfabetismo era imperante, l’informazione scarsa. La radio, con l’arrivo della luce elettrica, giunse nelle case di pochi. Così anche le esigenze rimanevano limitate. Ma da queste case e da questa gente, che aveva patito anche la guerra, si sprigionarono forza ed energia per la ricostruzione. Una nuova ondata di emigrazione si diresse questa volta verso i paesi d’Europa: la Svizzera, La Germania, La Francia, il Belgio.  Lavoro duro ma ben retribuito. Si mandavano soldi alle famiglie, si mettevano soldi da parte. Si cominciava a conoscere e quindi a desiderare altro. Le case vennero abbellite, si dotarono di tutti i comfort. Il lavoro all’estero educò al distacco dall’agricoltura. Si aprirono negozi, si impiantarono opifici, si aprirono bar e ristoranti, agevolati anche da un favorevole momento economico-politico. Nel giro di alcuni decenni Limatola diventò un caso esemplare, contò oltre settanta tra piccole e medie imprese e una capacità di accoglienza tale che portò qualche servizio televisivo a definirla La piccola Svizzera. Gli anni 90 possono essere definiti la nostra Bella époque. La disoccupazione giovanile era quasi scomparsa. Si assumevano lavoratori dai paesi vicini. L’edilizia era frenetica, le strade percorse continuamente dai tir che caricavano i prodotti. I giovani mettevano a disposizione dei nuovi tempi le conoscenze acquisite nel percorso scolastico superiore e universitario.

Non si poteva certo immaginare, nell’euforia generale, che il benessere diffuso fosse il preludio alla decadenza dell’inizio del nuovo secolo, tenuto conto che nella storia la generazione dei figli ha sempre ottenuto qualcosa in più della generazione dei padri.

autore: Lidia Di Lorenzo


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