di Lidia Di Lorenzo
A chiudere un anno di lavoro arrivava la vendemmia, a fine estate, nei primi giorni d’autunno. Coronamento di un lavoro che aveva inizio quando, nel cuore dell’inverno, esperti potatori, simili ad abili acconciatori, selezionavano accuratamente gli sciolti capelli della vite, che oramai aveva dato il suo frutto, eliminavano quelli superflui, sollevavano dalle erbe i rimanenti e li legavano ai sostegni con legacci di salice. I filari, così ordinati e allineati, magnifico ornamento dei campi, restavano in attesa di ospitare gemme, fiori mimetici e foglie. Seguivano incessanti cure del terreno intorno alla pianta madre, irrorazioni delle giovani foglie con il verderame. Piano piano, nascosti sotto i pampini si ingrandivano i grappoli, destinati a dare agli amorevoli coltivatori il succo della terra più gradito, il nettare degli Dei.
Chiunque avesse un piccolo campo da coltivare, piantava una vigna, indispensabile come il grano. A volte, per mancanza di spazio, questa veniva appoggiata ai muri delle case a formare una pergola, che dava ombra, sotto la quale ci si sedeva per superare la calura estiva.
L’eccesso di ombra non giovava però ai grappoli destinati alla produzione del vino, pertanto ai primi di settembre si provvedeva a spampinare, lavoro di sfoltimento e scopertura dei grappoli, affinché assumessero, assorbendo direttamente il calore del sole, un colore più acceso, nero brillante e giallo oro. Lo facevano gli uomini forniti di grossi sacchi di iuta e davano il raccolto in pasto agli animali.
Le vigne producevano uva dei due colori classici, di pochissime varietà. L’unica variante all’uva rossa era quella fragola, che dava un vino leggero dal delicato sapore che ricordava quel frutto. Un vino adatto alle donne, in quanto gli uomini lo disdegnavano, preferendo un gusto più robusto al palato. C’era anche l’uva da tavola caratterizzata da chicchi più grandi. La falanghina, l’aglianico, il piedirosso, vini tipici del territorio beneventano, prodotti da vitigni selezionati, erano completamente sconosciuti al coltivatore di Limatola degli anni cinquanta e sessanta. Diventeranno qualità note allorquando le uve saranno acquistate nei paesi vicini, dal territorio prevalentemente collinare, e si comincerà ad usare il vino imbottigliato, favorendo lo sradicamento delle vigne domestiche.
La vendemmia coinvolgeva tutta la famiglia, e si chiedeva aiuto, da rendere, anche ai vicini. Si trattava di un lavoro leggero che si eseguiva senza piegare la schiena. Per lo più erano le donne a staccare i frutti, mentre gli uomini trasportavano il raccolto presso l’abitazione e lo depositavano nei tini, riportando i vuoti nei filari. Sui tralci spogli restavano qua e là minuscoli grappoli di pochi chicchi, che nessuno avrebbe mai colto, simili alla piccola mela di saffica memoria. Al calar del sole, gli stessi uomini, dopo una accurata pulizia dei piedi, induriti dal freddo invernale e dall’arsura estiva, si rimboccavano i pantaloni, dai mille rattoppi, fino al ginocchio e via a pestare, in una rustica danza, i grappoli d’uva, fino a ridurli in una informe poltiglia, che bruciava i polpacci e colorava di viola le unghie dei danzatori. La mistura veniva lasciata riposare alcuni giorni, durante i quali era già possibile spillare qualche bicchiere di mosto, mentre si provvedeva ad intervalli brevi di tempo a calare con un palo la parte solida, che veniva in superficie, nella parte liquida che rimaneva sotto, al fine di impedire che il tutto virasse verso l’inacidimento. Nugoli di moscerini volteggiavano sulle tinozze, salutati come portatori benefici di germi della fermentazione, che si riteneva conclusa a giudizio del vinificatore, carico di antica esperienza.
Dopo circa dieci giorni, il vino spillato veniva a riempire i tini, le damigiane impagliate e i bottiglioni di varie capacità, per la successiva fermentazione. Ogni contenitore veniva lasciato schiumare nelle umide cantine, ricavate nel sottosuolo.
Ora era necessario portare la parte solida, composta dai raspi e dai chicchi privi del guscio, al torchio, che allora solo pochi possedevano, e occorreva dedicare tempo a questa incombenza, in quanto era necessario aspettare che si smaltisse la fila dei carri con il prodotto. La vinaccia che ne usciva veniva ancora impiegata, con aggiunta di acqua, per fare l’aceto, da utilizzare per le conserve invernali.
Intanto nei contenitori il vino continuava a bollire a lungo, ed era necessario ogni tanto travasarlo, da un contenitore all’altro, per eliminare l’ulteriore residuo. Così la sacra bevanda diventava limpida, priva di sospensioni, per miracolo della natura e per cura umana.
Il vino accompagnava ogni pasto, anche quello della mattina. Se ne offriva agli ospiti, dopo aver coperto parte del desco con una tovaglia di bucato. Era presente sull’altare per il sacrificio divino. Gli si attribuivano qualità terapeutiche ed energetiche. U’ vino fa sangue, a’ fatica fa iettà u’ sangue. Un buon bicchiere, preso prima di andare a letto conciliava il sonno, lo sosteneva anche il medico. Bicchiere e vino erano un binomio inscindibile. Dove c’era l’uno, c’era l’altro. Un fiasco e un bicchiere erano sempre in bella mostra nei vani delle credenze, pronti per soddisfare una sete improvvisa o semplicemente una voglia irresistibile di sana ebbrezza.
Poi i bicchieri si modificarono e moltiplicarono. Divennero più piccoli per ospitare marsala e vermhout, che si acquistavano nei negozi, per le grandi occasioni o per regalarli a parenti e amici, come conforto per recenti lutti. L’aggiunta di una piccola quantità di marsala convinceva bimbi riottosi a ingerire un uovo battuto, antidoto sicuro, si sosteneva, alla tubercolosi allora ancora endemica. Con l’avvento della televisione e di Carosello vennero le coppe, nelle quali si volteggiava il Rosso Antico, dal gradevole sapore, oppure un delizioso frizzante spumante italiano. In grossi calici veniva versato solo una piccola quantità di whisky, sontuoso alcolico, che evocava il lusso dei paesi nordici, conquista di tutte le conquiste. Fu poi il tempo del Cinar servito in lunghe flute, “contro il logorio della vita” divenuta “moderna” e infine bicchieri di carta nelle feste degli anni novanta celebrarono il tramonto definitivo del nostro lungo medioevo.
autore: Lidia Di Lorenzo, foto: Filippo Petriccione
2 commenti
GDF · 06/02/2021 alle 9:52
L’odore dell’uva appena torchiata, l’aria acidula e carica di umori che si leva dalla vinaccia, il senso di Letizia eppure di attesa che serpeggia durante la vinificazione, gli ovvi paragoni con gli anni precedenti, i sorrisi lanciati ai bambini per significare che un giorno anche loro coglieranno la solennità e l’importanza di quel processo: ecco, questo conservo della torchiatura dell’uva, un ricordo che sa di nonni, sa di buono, sa di quel genuino che oggi si fatica a ritrovare. E non è certo medioevo….
Arshistoriae · 12/02/2022 alle 21:22
Le tradizioni conservano il buono di ricordi e ci permettono di affrontare il futuro con la giusta prospettiva.
grazie del commento!